La mia storia da Gualdo a Pechino passando per Londra

di Melania El Khayat –

2 kg di tortellini agli spinaci, 3 pacchi di pasta Barilla, una ruota di Parmigiano Reggiano DOP, 7 barattoli di ragù di carne, 8 di pesto al basilico, un mazzo di rosmarino, 4 pacchi di crackers salati, 10 salsicce secche, piatti di plastica, 2 banane, una bottiglia di olio extravergine d’oliva protetta con cura da un paio di jeans arrotolati, e una moka Bialetti avvolta in tre paia di mutande e un reggiseno.

Chiunque avesse sbirciato nel contenuto della mia valigia prima del mio primo viaggio in Cina, avrebbe potuto facilmente credere che mia madre mi stesse preparando per affrontare un lungo esilio dove l’inedia sembrava una certezza. Mentre mi abbracciava a Fiumicino, con gli occhi lucidi e la voce spezzata dall’ansia, la mia povera mamma continuava a ripetermi, quasi ossessivamente, di non lasciare mai la valigia incustodita, come se il mio unico vero pericolo, dall’altra parte del mondo, fosse finire senza Parmigiano. Le sue lacrime e il tremolio nella voce sembravano presagire non solo la mia partenza, ma un’odissea in terra straniera, un destino crudele dove l’unica speranza di sopravvivenza risiedeva in quei 32 kg di cibo accuratamente confezionato.

Immaginate la sorpresa di mia madre quando scoprì che in Cina, incredibilmente, si mangia! E che dire della sua espressione quando le spiegai che in Cina non solo mangiano, ma usano addirittura piatti! E sai che c’è? Esistono perfino la nutella,  l’estathé e il panino con la porchetta ! Chi l’avrebbe mai detto?

Il mio primo anno in Cina (che si è concluso da pochissimo al momento della scrittura di questo racconto), è stato semplicemente meraviglioso. A rendere questa esperienza così speciale sono stati soprattutto i cinesi, che ho imparato ad adorare. La loro curiosità e il loro senso dell’umorismo mi hanno conquistata fin da subito. Non appena scoprono che sono italiana, ci sono alcune domande che, ormai, so che arriveranno puntualmente. Ne butto lì giusto  4:

 Domanda numero 1: “Hey, Xiao Mei — il mio nome cinese—, hai mai mangiato la pizza con l’ananas?”

 I cinesi non sono affatto ignari: sanno benissimo che questa combinazione è vista come un abominio in Italia e che esiste solo all’estero. Ma è proprio questo che li diverte. Questi burloni mi guardano con un sorriso malizioso, sperando di vedere una reazione scandalizzata, un’espressione di sgomento mista a un brivido di repulsione per questa blasfemia culinaria. Ma io li spiazzo esclamando senza la minima esitazione, “È buonissima!” E lì scatta il momento di puro smarrimento. Li vedo sgranare gli occhi, completamente disarmati, senza sapere bene come reagire. Poi, per rincarare la dose, aggiungo con un sorriso complice: “Proprio come il tè… zuccherato.”

E lì, tocca a loro rabbrividire, un po’ schifati, perché nella lora cultura il tè non si zucchera mai. Sono o non sono un genio del male?

Domanda numero 2: Hey Xiao Mei, ma da dove vieni in Italia?

Questa è la classica domanda che arriva soprattutto dai cinesi che sono già stati in Italia o che se ne intendono di geografia europea. Si preparano mentalmente a sentirsi dire “Milano,” “Roma,” o “Venezia”—insomma, uno di quei posti che li faccia annuire con aria compiaciuta.  E un po’ mi dispiace deluderli quando, con il mio miglior accento cinese, rispondo “Guā’ěrduō Tǎdínuò.” Seguono risatine nervose e qualche secondo di silenzio. Così, per tirarli fuori dall’impaccio, aggiungo: “vicino Firenze” (che poi, per i nostri standard, Gualdo è vicina a Gubbio, vicina a Assisi, sì… ma non è neanche lontanamente vicino a Firenze. Vabbè, chi se ne accorge? Non è che stanno lì a controllare con il navigatore del telefono). A quel punto, li vedi rilassarsi di colpo, come se avessi appena detto la parola magica. Firenze funziona sempre: sguardi rassicurati, sorrisi di sollievo e magari pure qualche cenno d’approvazione.”Ah, Firenze!” esclamano concitati, “La culla del Rinascimento.” E subito parte la celebrazione: Michelangelo, Leonardo da Vinci, Dante, Galileo Galilei… li conoscono tutti, eh! Ma ecco il rischio: la prossima domanda, inevitabile, sarà questa: “Xiao Mei, mi consigli un posto dove mangiare il lampredotto e la bistecca alla fiorentina?” Per la cronaca, l’unica cosa che ho assaggiato l’ultima volta che sono stata a  Firenze era un tramezzino dell’ Autogrill.

Domanda numero 3: “Hey Xiao Mei, fino a quanto tempo vuoi restare in Cina?”

“Eh… quanto tempo voglio restare in Cina… bella domanda, sai? Boh, non lo so. Forse rimango finché non incontro un anziano saggio che mi dà una di quelle perle di saggezza tipo ‘il viaggio è più importante della destinazione’ mentre mi offre un raviolo di carne. O forse mi trattengo finché non trovo un albero di bambù abbastanza grande da costruirmi una capanna zen in cui meditare su quanto odio il tè zuccherato. Oppure, no, forse rimango fino a quando trovo un distributore automatico che non mi fa sentire in colpa per non sapere quale delle 37 varietà di tè verde scegliere. Sai, una volta ho ordinato una cosa e ho scoperto che era una zuppa di uova gelatinose con fiori di loto… che poi, che diavolo è un loto? È un fiore o una verdura? Boh, aspetto che me lo spiegate.”

Domanda numero 4: “Hey Xiao mei, perché hai deciso di studiare il cinese?”

C’è qualcosa di particolare nella domanda perché hai deciso di imparare il cinese? Non è come quando ti chiedono: “Perché studi inglese?” o “Perché hai iniziato francese?” No, qui la questione è diversa, quasi mistica. Quando dici che studi cinese, la gente non riesce a trattenere un’espressione di stupore, quasi come se stessi confessando di voler diventare un giocoliere di angurie. E subito arriva, come un riflesso automatico, la domanda.

E perché? Beh, è ovvio che chi te lo chiede pensa che imparare cinese sia una scelta che richiede motivazioni speciali. Non è mica come l’inglese. Imparare l’inglese è una necessità pratica: vuoi viaggiare, trovare un lavoro migliore, guardare le serie tv in lingua originale… È utile, è ovunque, e ormai quasi scontato. È come avere un cacciavite in casa: serve, punto. Ma imparare il cinese? È come decidere di collezionare arte rinascimentale: affascinante, impegnativo, e sicuramente non qualcosa che fai solo perché “serve”.

E poi, ammettiamolo, la maggior parte delle persone vede il cinese come l’Everest delle lingue, mentre l’inglese è più una collina. Per loro, se impari l’inglese, stai affrontando una lingua importante, sì, ma anche gestibile, alla portata di chiunque. Ma il cinese? È tutta un’altra cosa: migliaia di caratteri, toni che cambiano il significato di una parola con una singola inflessione, e una cultura linguistica così diversa da quella occidentale che sembra quasi appartenere a un altro pianeta. Non è una lingua che si “impara così, tanto per”. È una sfida epica, una maratona intellettuale.

I cinesi, dunque, si aspettano quasi sempre una storia. Forse hai passato sei mesi in Tibet e sei stato illuminato da un monaco, oppure ti sei innamorato di un’opera cinematografica cinese e hai deciso di imparare la lingua per capirla meglio. Le aspettative sono altissime. È una domanda che ti mette un po’ di ansia. L’inglese, invece, non ha bisogno di scuse. Si parla perché si deve. Punto.

E quindi, ritorniamo  alla domanda: “Perché hai deciso di imparare il cinese?”

Come dicevo, ai cinese piacciono le storie, allora rispondo “signora, al liceo mi sono invaghita di un ragazzo cinese e ho imparato la lingua a causa sua.” Seguono sguardi allibiti, pause imbarazzate, e magari anche qualche sorrisetto complice, pensando alla mia “dedizione” per questo ragazzo cinese. È una storia che non lascia scampo! Poco importa se il ragazzo non sia mai esistito, la risposta è talmente divertente e inaspettata che funziona sempre. La realtà, però, è molto più noiosa. 

L’oggetto del racconto sarà proprio questo: il mio viaggio da Gualdo a Pechino, passando per Londra, e la lotta interna (ed esterna) di una ragazza che voleva imparare il cinese senza sapere cosa fosse un loto.

Spoiler alert: sì, è un fiore. Sì, è anche una verdura. E incredibilmente, è riuscito a diventare sia parte della mia dieta che della mia confusione linguistica.

Se mi guardo indietro, devo ammettere che l’avventura è partita in modo bizzarro. Prima di tutto, c’è la valigia da 32 kg, che non era esattamente la tipica valigia di uno studente Erasmus. No, la mia sembrava preparata per un viaggio interstellare. Una sorta di “kit di sopravvivenza italiana” destinato a farmi superare il presunto digiuno alimentare che mi aspettava in Cina, secondo mia madre.

Ah, e riguardo al “ragazzo cinese” che non è mai esistito… beh, a forza di usarlo come scusa a così tante volte, mi sto quasi convincendo che da qualche parte, là fuori, debba davvero esserci. Chissà, magari lo incontrerò a Pechino e potrò finalmente ringraziarlo di persona per tutte le volte che mi ha tolto dall’imbarazzo!

(Fine prima puntata)

Parte 1: Il liceo

Tutto è cominciato con il mio ultimo anno di liceo scientifico, nel 2019.

I dubbi erano tanti, le certezze poche, ma una cosa era chiara come il sole: la matematica, da quando avevano deciso di metterci di mezzo le lettere, non faceva più per me. Tutto ciò che ruotava attorno a “x” e “y” si trasformava in puro incubo.

Per fortuna, altre materie riuscivano ancora a non farmi venire l’orticaria: filosofia, storia, economia, scienze politiche, lingue… insomma, praticamente tutto tranne la matematica.

Ed è lì che è partita la mia grande riflessione strategica: “forse Relazioni Internazionali potrebbe essere un buon compromesso.” Avrei studiato un po’ di politica, un po’ di storia, magari anche un tocco di economia globale. Insomma, un bel minestrone di discipline, un pout-pourri di scienze sociali, come direbbero quelli eleganti.  Così facendo, ciò che mi appassionava davvero si sarebbe rivelato più avanti. Ero convinta che fosse la scelta giusta.

Con questo rinnovato senso di sicurezza, presi la decisione di studiare questa strana materia in una delle città più internazionali d’Europa: Londra. Un piano solido, no? 

Facendo un po’ di ricerche online, scoprì che nel mondo anglo-americano sono in voga le cosiddette joint degrees—lauree in ambiti apparentemente non collegati che ti permettono di studiare qualsiasi combinazione assurda ti venga in mente: fisica quantistica e storia del cinema giapponese, psicologia e design del prodotto, o perfino ginecologia e ingegneria spaziale (così se un giorno volessi far nascere un bambino mentre ripari una navicella in orbita, sapresti a chi rivolgerti). Così mi sono detta: “Perché non alzare la posta? Oltre a Relazioni Internazionali, posso aggiungere un’altra sfida, così mi garantisco la disoccupazione non in uno, ma in ben due campi contemporaneamente.”

E, così, scelsi il cinese. In realtà, all’inizio non c’era un motivo preciso. Col tempo è cresciuto l’interesse per la musica, la letteratura e la cucina cinese, ma queste passioni sono arrivate solo in un secondo momento, solo dopo il mio contatto con la lingua. La scelta iniziale è stata guidata da una curiosità più profonda verso quello che c’è fuori.

In Italia, giustamente, ci facciamo delle grandi scorpacciate di storia italiana, letteratura e filosofia, spesso e volentieri in relazione all’Europa. Ma io a scuola mi sono sempre chiesta questa cosa: mentre noi avevamo il Medioevo, l’Umanesimo, il Rinascimento, l’Illuminismo, questo che litigava con quello e questo che scomunicava quest’altro, fuori dall’Europa esattamente cosa facevano? Mica si giravano i pollici stando a guardare! La Cina, con la sua cultura millenaria e la sua egemonia storica in Asia, mi incuriosiva proprio per questo. Volevo approfondire ciò che ebbi imparato al liceo ma da un’altra chiave di lettura.

Superato dunque il primo ostacolo—capire cosa volessi fare—e il secondo—ottenere l’ammissione alla prestigiosa SOAS di Londra—mi restava il terzo: far digerire la notizia ai miei genitori.

Occorre sapere che i miei genitori sono persone molto pragmatiche. Per loro, chi studia ingegneria diventa ingegnere, chi studia medicina diventa medico, e chi studia giurisprudenza diventa avvocato o notaio. Ma chi studia Relazioni Internazionali e cinese, che cavolo fa nella vita?

Quando gli viene chiesto, ancora oggi i miei poveri genitori rispondono con un sorriso imbarazzato e una scrollata di spalle, come a dire: “Boh, non lo chiedere a noi.”

Il giorno in cui annunciai che invece di studiare medicina a Perugia, volevo andare a Londra, a duemila chilometri di distanza, per studiare qualcosa di completamente diverso e che non sapevo nemmeno come spiegare, ipotizzai due scenari possibili: o i suddetti sarebbero svenuti per lo shock, oppure mi avrebbero ridotto in salsiccia da dare in pasto ai cani dei vicini. Per fortuna, nessuna delle due opzioni si è verificata.

Invece, sorprendentemente, mi hanno dato fiducia. Non è che abbiano compreso del tutto, ma hanno deciso di allentare un po’ la presa e lasciarmi camminare su questa strada da sola. Così, dopo la maturità, sono partita per Londra. Zaino in spalla, ombrelli (molti) e sogni ambiziosi, pronta ad affrontare questa nuova avventura.

Non sarei mai riuscita a partire senza l’aiuto prezioso delle mie professoresse Maria Cristina Anderlini e Sabrina Concetti, che hanno creduto in me e mi hanno scritto una lettera di raccomandazione per l’ammissione. Quelle lettere sono state il mio primo grande passo verso un mondo completamente nuovo, e non lo dimenticherò mai.

(fine seconda puntata)

Parte 2: Londra

Era l’ultimo anno in cui il Regno Unito faceva ancora parte dell’Unione Europea, con Boris Johnson a capo del governo e i suoi capelli ribelli sempre in disordine, mentre la regina — pace all’anima sua — continuava a sfoggiare i suoi impeccabili abiti pastello. Tutte le sfide e gli ostacoli che ho incontrato in Inghilterra — io, una diciannovenne che non si era mai allontanata da Gualdo Tadino manco per sbaglio — meriterebbero un capitolo a parte. Ma questa è la storia di come Melania è arrivata in Cina, quindi ci torneremo forse più avanti.

Quando decisi di studiare all’estero, mi aspettavo delle difficoltà. Qualcosa tipo: “Sì, ok, magari sarà un po’ dura scrivere gli assignments in una lingua che, per quanto tu possa conoscere, non è la tua.” E sì, succedono proprio quelle difficoltà, ma mai ti immagini quanto possano essere pesanti finché non ci sei dentro. Poi ci sono quelle sorprese che non prevedevi proprio, tipo scoprire che la struttura e la logica dei saggi universitari inglesi sono un mondo completamente diverso rispetto a quelli italiani. Il rapporto tra studenti e professori? Anche questo è totalmente diverso da quello a cui ero abituata. E, ammettiamolo, non avevo mai imparato come leggere e analizzare articoli accademici in modo critico, né tantomeno come difendere le mie opinioni in classe, cosa che invece in Inghilterra è quasi una routine obbligata.

Io, quella che al liceo era abituata a prendere sempre il massimo dei voti (beh, tranne in matematica), mi ritrovavo improvvisamente con risultati disastrosi.

Le lezioni di cinese, poi, un incubo. Tutti i miei compagni sembravano partire con un vantaggio: o erano figli di cinesi, o avevano già vissuto in Cina, o possedevano almeno un certificato di livello A2-B1. Insomma, avevano tutti una base da cui partire, tranne tre studenti: un ragazzo afghano dai bei ricci, una dolcissima ragazza danese con la pelle color mozzarella e la sottoscritta.

Noi tre eravamo i compagni di sofferenza, un trio improbabile alla deriva nel vasto oceano del cinese. Il ragazzo afghano, poi, era una vera leggenda: ricci perfetti, sempre di buon umore, e un’attitudine che rasentava l’epico. Affrontava ogni lezione con una leggerezza invidiabile, come se il cinese fosse solo un piccolo ostacolo da aggirare con il sorriso. Ogni volta che la professoressa iniziava con le sue mitragliate di parole incomprensibili, lui rideva, come se la sua incapacità di capire fosse solo un piccolo dettaglio insignificante, quasi un capriccio del destino che non valeva la pena prendersi troppo sul serio. E quando toccava a lui, sparava la prima frase che gli veniva in mente — spesso completamente a caso e fuori tema — ma lo faceva con una tale convinzione che non solo la professoressa, ma anche il resto della classe finiva per ridere con lui.

La ragazza danese, invece, era l’esatto opposto: delicata e sempre un po’ sull’orlo del collasso emotivo, ogni volta che veniva chiamata in causa sembrava sul punto di sciogliersi in lacrime. Per lei, il cinese non era solo difficile, era una montagna insormontabile, e la cosa peggiore è che la stava scalando con delle ciabatte troppo larghe e senza il minimo equipaggiamento. Ogni singola domanda della professoressa era come un masso che le si abbatteva addosso, e io non potevo fare a meno di sentirmi solidale con lei.

E io? Beh, io cercavo disperatamente di non sprofondare. Ma con ogni lezione che passava, cresceva dentro di me la voglia di mollare tutto e diventare pastora in Sardegna. Più il tempo avanzava, più mi convincevo di aver fatto un errore colossale scegliendo questo percorso. La Cina sembrava lontanissima, non solo geograficamente, ma soprattutto mentalmente, e io mi sentivo completamente fuori posto.

Tutte queste ansie le tenevo dentro di me, cercando di nasconderle sotto una facciata di determinazione. Ma c’era una cosa che mi dava un filo di speranza. Parlando con gli studenti dell’ultimo anno, scoprì che anche molti di loro erano partiti da zero, arrancando all’inizio proprio come me. Però, dopo lo scambio a Pechino, avevano fatto progressi incredibili. Mi raccontavano storie assurde e divertenti sulla loro vita in Cina, dalle difficoltà iniziali con la lingua fino a piccole vittorie quotidiane, e io non vedevo l’ora di poter vivere quelle esperienze in prima persona.

Quella piccola fiamma di speranza mi diceva: “Ok, Melania, magari adesso fai schifo a parlare cinese, ma è solo questione di tempo. Vedrai, un giorno sarai brava quanto loro.” E quella prospettiva, per quanto lontana, mi aiutava a tenere duro.

La mia professoressa si chiamava Yan, una donna che, alla fine, ho imparato a trovare simpatica nonostante i suoi metodi decisamente intensi. Yan era bellissima, con lunghi capelli neri che sembravano seta e un’energia quasi elettrica. Parlava un inglese perfetto, con un accento britannico impeccabile — anche merito del suo matrimonio con un architetto inglese, mi spiegò una volta. Ogni lezione con la professoressa Yan era un’esperienza a sé: sembrava avesse bevuto una cisterna di caffè prima di entrare in aula. Parlava alla velocità della luce, con un’energia quasi soprannaturale, come se insegnare cinese fosse una missione divina e noi i prescelti che dovevano afferrare ogni singolo ideogramma al volo, pena la scomunica. 

Poi c’era il professor Song. Sempre serissimo, mai un sorriso,  sembrava uscito da un manuale su come spaventare gli studenti con il solo potere del silenzio. Ogni venerdì era una condanna. La sua presenza in aula era glaciale, tanto che non osavo nemmeno incrociare il suo sguardo per paura di essere congelata sul posto. Ad un certo punto, decisi che evitarlo era la migliore strategia di sopravvivenza. Infatti, credo di essere andata al suo corso solo quattro volte in tutto l’anno.

Nel frattempo, a dicembre 2019, cominciarono a circolare voci su una misteriosa polmonite a Pechino. All’inizio, tutti pensavamo che fosse una questione passeggera, una cosa confinata alla Cina. Nessuno poteva immaginare quello che sarebbe successo dopo. Ma il resto, ormai, è storia.

A marzo 2020, mentre l’Italia entrava in lockdown e i telegiornali trasmettevano immagini inquietanti, Londra era ancora aperta, quasi ignara di quello che stava per colpirla. La mia università passò alla didattica a distanza. Le persone continuavano ad affollare le strade, i pub rimanevano pieni, e la vita sembrava scorrere come sempre, se non per quella sottile sensazione di allarme che iniziava a serpeggiare tra la gente. Tuttavia, l’incertezza cominciava a crescere, e io seguivo con preoccupazione le notizie dall’Italia, dove la situazione era già drammatica. Temevo per la salute della mia famiglia, per i miei amici a Gualdo, e ogni volta che sentivo la loro voce al telefono cercavo di nascondere la mia ansia.

 La distanza da casa diventava insopportabile.  Decisi che non aveva senso restare lì. Feci le valigie in fretta e tornai a Gualdo, lasciando intatte le mie cose a Londra, pensando che sarebbero state giusto un paio di settimane e poi sarei tornata. Quanto mi sbagliavo: sarebbe passato quasi un anno e mezzo prima di rimetterci piede. Erano passati appena sei mesi dal mio atterraggio a Heathrow, e mai avrei immaginato di dover tornare così presto. E così, dalla caotica Londra mi ritrovai di nuovo nel silenzio di Gualdo, aspettando che il mondo ricominciasse a girare.

(fine terza puntata)

Parte 3: Gualdo e Bratislava

Fu in quel contesto che, a giugno 2020, affrontai i miei primi esami online.  Li superai con la sufficienza tirata. La ragazza danese, incapace di reggere la pressione delle lezioni della prof.ssa Yan, decise di mollare il corso dopo appena due o tre mesi. Il ragazzo afghano, poveretto, non ce la fece proprio: fu bocciato senza appello. E alla fine, rimasi io, l’unica superstite del gruppo. Non so se fosse merito di qualche intervento divino o del fatto che mia nonna, con la sua fede incrollabile, prega per me almeno dieci volte al giorno. Probabilmente entrambe le cose.

C’è un famoso anatema in inglese che recita “I hope you live in interesting times” (ti auguro di vivere in tempi interessanti) e il lockdown a Gualdo era un periodo senza dubbio interessante. Era il periodo delle mascherine, dei tamponi su per il naso, del distanziamento sociale, degli hashtag #iorestoacasa, dei “Ragazzi, mi sentite?”, dei “Prof, non mi funziona la wifi!”, del governo Conte II, e del nostro sindaco diventato virale su internet per la sua memorabile invettiva contro chi portava a spasso i cani con la “prostata infiammata.”

Per molti, fu un periodo difficile e alienante. La solitudine, l’ansia per una pandemia senza fine e l’ombra costante di un futuro indefinito facevano sentire molti intrappolati, bloccati in un limbo.

Ma per me, stranamente, il lockdown a Gualdo fu come una sorta di reset che mi permise di togliere gli “occhiali della depressione” che avevo indossato per troppo tempo. Quegli occhiali che ti fanno vedere tutto grigio, non perché la realtà sia davvero così, ma perché è il filtro con cui guardi il mondo. Londra, che fino a poco prima mi sembrava soffocante e ostile, non era cambiata; ero io che, con quegli occhiali addosso, non riuscivo a vederla per quello che era. Tornare a Gualdo mi diede il tempo e lo spazio per rimuoverli, per rendermi conto che il problema non era la città, ma la mia prospettiva distorta.

Invece di sentirmi intrappolata, cominciai a vedere quel tempo sospeso come un’opportunità: una pausa dalla frenesia che mi permetteva di rivalutare tutto. E con quella calma forzata, mi accorsi che ciò che mi era sembrato insopportabile prima non era la città o il mio percorso, ma il mio approccio a tutto ciò.

Quell’estate mi sono immersa nello studio come mai prima. Ogni giorno accumulavo pagine e pagine di ideogrammi, dedicandomi anima e corpo alla lingua. Alla fine dell’estate, avevo praticamente imparato a memoria l’intero libro di cinese.

Il secondo anno arrivò, e mi ritrovai ancora una volta a studiare da Gualdo, con la didattica a distanza. La prof.ssa Yan se ne tornò a Pechino dopo che suo padre, purtroppo, era morto di Covid. E chi mai poteva prendere il suo posto? Ma certo, il temutissimo professor Song. Quello che incuteva terrore anche solo con la sua presenza su Zoom.

Eppure, qualcosa cambiò. Dopo uno dei nostri test, ricevetti una sua mail. Mi scrisse che avevo ottenuto uno dei voti più alti della classe e, incredibilmente, che era fiero di me. Fiero. Di me. Avevo capito bene? Credo di aver riletto quella frase almeno cinquanta volte. Non riuscivo a crederci. Il professor Song, il terrore del dipartimento, l’uomo che incuteva timore anche solo con un sopracciglio alzato, era fiero di me. Mi sembrava di aver raggiunto un traguardo epico. Quella semplice frase fu un punto di svolta, non tanto per il voto in sé, ma perché era la prima volta che mi sentivo davvero riconosciuta. Per me, fu l’inizio della mia rinascita.

Il secondo anno, seppur ancora a distanza, mi regalò qualcosa di inatteso: quel sentimento che non provavo dai tempi del liceo, quando non vedevi l’ora che arrivi il giorno di una lezione in particolare per ascoltare un professore che ammiri. Il professor Song, con la sua serietà che poteva intimidire anche un esercito, iniziò a conoscerci meglio, e si instaurò una sorta di rispetto reciproco. Forse perché in quel periodo aveva più ore con noi rispetto agli altri. Per la prima volta, nonostante fossimo lontani fisicamente, cominciammo a sentirci parte di una classe vera e propria. Eravamo una dozzina di studenti, un mix di inglesi ed europei, e lentamente ci rendemmo conto di non essere più solo individui isolati che cercavano di sopravvivere a Song, ma un gruppo di amici.

Quel secondo anno mi aiutò a ritrovare me stessa. Sentì che, dopo mesi di incertezze, finalmente stavo ricostruendo la fiducia nelle mie capacità. Finì il mio secondo anno con voti nettamente migliori rispetto all’anno precedente.

(fine quarta puntata)

Poi venne l’estate. Governo Draghi, vaccino, e finalmente si aprirono le frontiere. Sembrava quasi un ritorno alla vita normale, quella che avevamo messo in pausa. La gente era fuori, le mascherine iniziavano a scomparire e poi, piano piano, a diventare cimelio dell’era Covid. Finalmente avevo l’opportunità di fare qualcosa di diverso dal solito. Così, partecipai a un progetto di volontariato dell’Unione Europea in Polonia.

È stata una decisione totalmente random, presa una settimana prima di partire.  Che dire, fu un’estate magica, la più bella della mia vita. Il tipo di estate che ti immagini di vivere guardando quei film indie con la colonna sonora sognante. I miei migliori amici li ho conosciuti proprio lì. Ora, immaginate: un gruppo di una trentina di ragazzi internazionali, tutti un po’ persi e mal assortiti, catapultati in una fattoria in un villaggio disperso vicino a Bratislava e la connessione wifi a malapena funzionava. Ma onestamente chi se ne fregava? C’erano salsicce sul fuoco, birra, e qualcuno che strimpellava una chitarra. In quel momento sembrava tutto perfetto. Internet poteva aspettare, mentre il mondo sembrava essersi dimenticato di noi per un attimo. Sembrava di vivere in una bolla fuori dal tempo, dove ogni serata era un’avventura fatta di risate, chiacchiere in lingue mescolate e gare su chi sapesse accendere il fuoco meglio di tutti.

Ma nonostante tutta questa ritrovata energia, il mio sogno di andare a Pechino sembrava ancora lontanissimo. Anche con le frontiere che cominciavano ad aprirsi, la Cina rimaneva impenetrabilmente sigillata. Quindi, proprio quando pensavo di avere tutto sotto controllo, arrivò la botta: per il mio terzo anno, quello in cui avrei dovuto finalmente andare a Pechino, l’università ci annunciò che lo scambio si sarebbe svolto online. Ma non basta: lezioni dalle 3 alle 5 di mattina, perché l’orario doveva ovviamente rispettare quello cinese.

La notizia fece infuriare la maggior parte degli studenti. Lezioni alle tre del mattino? Ma soprattutto, ancora lezioni online? Non ne potevamo più di passare ore a fissare uno schermo, senza contare che il lockdown aveva già fatto abbondantemente la sua parte nel distruggere il nostro ritmo sonno-veglia. Molti studenti erano insoddisfatti. L’università, probabilmente per placare gli animi, propose un’alternativa: uno scambio a Taiwan, per la prima volta nella storia del dipartimento. Lì le cose erano più tranquille e le frontiere erano aperte, o almeno più aperte di Pechino.

Sembrava una buona opzione, no? Peccato che i costi fossero un tantino alti: settimane di quarantena obbligatoria in hotel, tasse universitarie, spese varie… E io? Io non me la sentivo proprio di chiedere ai miei genitori, già vessati dalla pandemia, di sborsare cifre assurde per farmi viaggiare in Asia. Anche molti dei miei compagni la pensarono così. Risultato? Molti decisero di tagliare del tutto lo scambio, riducendo il loro corso di laurea da quattro anni a tre. Alcuni coraggiosi partirono per Taiwan.

E io? Beh, io ero l’unico del mio corso che si iscrisse a questo famigerato corso folle delle 3 di notte. Volevo imparare il cinese e non potevo sopportare l’idea di avere una laurea “monca”, senza lo scambio culturale. Ma sapevo che non sarebbe bastato. Per quanto mi impegnassi, imparare una lingua sui libri e nella mia stanzetta era un’altra cosa rispetto all’immersione totale che avrei avuto vivendo davvero lì.

Così, mentre tre o quattro compagni partivano per Taiwan, io sentivo di essere di nuovo indietro. Cosa potevo fare per recuperare? E poi mi venne l’illuminazione: trovare un lavoro con dei cinesi. Sarebbe stato il mio modo di immergermi nella lingua, anche se non potevo essere fisicamente in Cina. E sarei stata disposta a tutto, anche a travestirmi da raviolo gigante e ballare davanti a un ristorante pur di sentire i cuochi litigare in mandarino e imparare una parola nuova ogni tre insulti.

Dopo aver mandato qualche curriculum e fatto qualche colloquio online, finì per ottenere un posto in una azienda fin-tech cinese a Londra. Sì, avete capito bene. Dopo una settimana dal colloquio, ero già assunta. Londra, stavolta, ci rivediamo.

(fine quinta puntata)

Parte 4: Londra (again)

Per un anno intero, la mia routine giornaliera sembrava più un addestramento militare: sveglia alle 2:50 del mattino, giusto il tempo di scuotermi il sonno di dosso e fingere di essere un essere umano funzionante per la lezione delle 3. Poi, infilo i pantaloni alla velocità della luce (perché, diciamolo, in videochiamata basta sembrare presentabili sopra), e via all’ufficio. Alle 5 del mattino, seconda lezione, e dalle 9 alle 5, ero in ufficio a fare del mio meglio per sembrare competente. Alle 9 di sera ero già crollata a letto, completamente esausta ma felice come una Pasqua. E repeat.

Sembra stancante, vero? Eppure, non mi ero mai sentita così energizzata prima d’allora. Sul serio, quell’anno è stato il mio annus mirabilis. Ogni mattina, mentre Londra dormiva e io camminavo per una mezz’oretta nel silenzio surreale delle strade vuote di Camden Town e Leicester Square, cuffie nelle orecchie, mi sentivo come se potessi spostare montagne. Mi svegliavo carica, quasi contenta della sveglia che suonava (sì, lo so, è strano), ma la verità è che avevo la mia prima vera indipendenza finanziaria e finalmente potevo contribuire ad alleggerire il fardello dei miei genitori. E, insomma, se una sveglia alle 2:50 era il prezzo da pagare, lo accettavo volentieri.

L’edificio in cui mi recavo tutti i giorni era un vero gioiellino. Un palazzo gigante, a dieci minuti da Buckingham Palace, con una vista pazzesca su Green Park. Durante la pausa pranzo, mi facevo un giro tra gli alberi, incrociando gente in giacca e cravatta che sembrava appena uscita da un film su Wall Street. Il nostro ufficio, invece, all’ultimo piano del palazzo, era un’oasi di tranquillità. Arredato in perfetto stile cinese, con canne di bambù qua e là, era talmente zen che ci andavo persino il fine settimana a studiare da quanto lo trovavo piacevole.

 E il mio lavoro? Beh, un po’ di tutto. Essendo la più piccola e l’ultima arrivata, mi rifilavano qualsiasi cosa: nominalmente, ero al front desk, ma nel frattempo facevo anche il giardiniere (annaffiavo le piante del Capo Grosso), la traduttrice (di ricevute, report, articoli e più ne ha più ne metta), l’assistente delle risorse umane (organizzavo colloqui con studenti universitari), e perfino la baby-sitter (davo un’occhiata alla bimba del Capo Medio quando se la portava in ufficio e guardavamo insieme Peppa Pig in mandarino).

A completare quel quadro c’erano i colleghi. All’inizio, un gruppo di perfetti sconosciuti. Alla fine, una banda di amici fidati. Durante i momenti morti chiedevo loro aiuto con i compiti, ma spesso ne sapevano meno di me. Si mettevano lì, con l’aria concentrata, cercando di capirci qualcosa, ma alla fine mi proponevano risposte così assurde che a confronto io sembravo un genio della linguistica. A volte, si mettevano ad ascoltare le mie lezioni, non per aiutarmi, ma per pura curiosità, tipo: “Ma davvero stai capendo qualcosa di tutto questo?”

E poi c’era un assortimento di personaggi che incontravo regolarmente, di cui conoscevo tanti dettagli – tipo che facevano zumba ogni venerdì o che coltivavano una passione insospettabile per il karate – ma, paradossalmente, non avevo mai idea di come si chiamassero. Nella mia testa erano “il tipo della zumba” o “il maestro del karate”, e andava benissimo così per le nostre chiacchiere quotidiane.

Per esempio, c’era il portinaio, un signore inglese elegantissimo con dei baffi alla Salvador Dalí, che sembrava avere un dottorato in chiacchiere sul meteo. Oppure la thailandese alla reception, che conosceva i gossip di ogni singolo angolo dell’edificio. Persino il tizio che veniva a pulire l’acquario una volta a settimana aveva un suo posto nella mia routine, tanto che nella mia testa lo chiamavo affettuosamente “fish man” perché non ho mai scoperto il suo vero nome. Poi c’era la signora delle pulizie, una donna latinoamericana che arrivava sempre alle cinque del mattino, quando ero l’unica in ufficio, collegata per la mia lezione. Con un inglese un po’ spezzato, mi parlava con orgoglio dei suoi figli e dei loro studi. In quei momenti, pensavo ai miei genitori e mi commuovevo, sapendo che, come lei per i suoi, anche loro avevano fatto tanto per me.

Ah, una volta il capo della sicurezza corse verso di me preoccupato, convinto che fossi svenuta sul divano – in realtà, stavo solo facendo una pennichella. Da quella volta, ogni volta che mi vedeva seduta, mi chiedeva con un sorriso se stessi “solo riposando” o se doveva chiamare i soccorsi. Era un microcosmo strano e affascinante quello dell’ufficio, una commistione di personalità e ruoli che, alla fine, faceva sentire tutto un po’ più familiare.

(fine sesta puntata)

Oltre al divertimento e alla confusione quotidiana, ho imparato tantissimo sulla cultura cinese, qualcosa che nessun libro avrebbe mai potuto insegnarmi. Negli uffici cinesi, ad esempio, non contraddici mai un capo apertamente: questo farebbe perdere loro mianzi, il “volto”, una questione di orgoglio che prendevano molto seriamente. Mi colpiva sempre vedere i colleghi più giovani che annuivano e sorridevano di fronte a idee palesemente assurde. Solo dopo ho capito che dietro c’era una dinamica culturale profonda, molto lontana dalla nostra.

Ho anche scoperto che il cibo, per i cinesi, è sacro quasi quanto questo mianzi. Non c’è pranzo o cena che si rispetti senza una tavola piena di piatti condivisi, dove tutti si servono a turno. E che non ti venga in mente di ordinare il tuo piatto personale, come facciamo noi, perché ti guarderanno come un eccentrico occidentale ignaro del concetto di condivisione.

A proposito di cibo, però, c’è una questione che per me è sacrosanta: mangiare il gelato quando hai il ciclo è un diritto inalienabile.  Non sono io a dirlo, è una legge cosmica scritta nelle profondità dell’universo femminile. È come se il gelato fosse stato creato apposta per quelle giornate infernali, un balsamo per l’anima e una coccola per il corpo.

Ma poi arriva il colpo di scena: le mie colleghe cinesi, con la loro saggezza millenaria, mi fanno capire che per loro questa è un’idea assolutamente inconcepibile. Secondo la medicina tradizionale cinese, mangiare gelato durante il ciclo non è solo una cattiva idea, è un obbrobrio, un crimine contro l’umanità, praticamente il Male assoluto.  “Stai spegnendo il tuo fuoco interno,” mi dicono con la gravità di chi ti sta salvando da un profondo disonore.

Ora, ascolto sempre con grande rispetto queste perle di saggezza antica, ma davanti al frigo, con loro che cercavano di allontanarmi a tutti i costi come se fosse una questione di vita o di morte, la mia risposta fu semplice e diretta: “Ragazze, magari spegnerò pure il mio fuoco interno, ma almeno morirò felice con una coppa di gelato alla stracciatella in mano, quindi levatevi di torno grazie!”

Mentre vivevo tutte queste esperienze, il professor Song, forse curioso o forse preoccupato che Londra mi avesse inghiottito, un giorno mi scrisse una mail. Voleva sapere se fossi ancora viva e, soprattutto, se tutto quel cinese che avevo studiato fosse servito a qualcosa. Gli raccontai tutto: delle sveglie all’alba, del lavoro, delle mie passeggiate solitarie per Londra, e alla fine mi piazzò in videochiamata davanti ai suoi studenti più giovani, tipo trofeo vivente. Doveva dimostrare che sì, persino quella lingua che sembrava uno scherzo impossibile da usare nella vita reale, poteva effettivamente tornare utile, o almeno far sopravvivere qualcuno a Londra.

Così finì quell’anno folle con l’azienda cinese, insieme all’anno virtuale con Pechino. E finalmente arrivò l’ultimo anno di università.

Il mio ultimo anno di università fu decisamente diverso da tutto ciò che avevo vissuto fino a quel momento. Dopo l’esperienza straordinaria con l’azienda cinese e il mio annus mirabilis fatto di sveglie all’alba e lezioni notturne, mi trovai finalmente a vivere la vita universitaria nel modo più “normale” possibile: di nuovo in campus, con lezioni faccia a faccia e niente più didattica a distanza.

E, per quanto apprezzassi quel ritorno alla normalità, c’era una parte di me che quasi rimpiangeva l’anno passato. In fondo, la routine folle che avevo creato – sveglia alle 2:50, lezioni notturne, passeggiate solitarie nella Londra addormentata e poi lavoro in ufficio – mi aveva dato una scarica di adrenalina che poche altre cose nella vita avrebbero potuto eguagliare. Ma c’era anche qualcosa di entusiasmante nel fatto di tornare a vivere il campus universitario, finalmente senza schermi e Zoom che separavano me dai miei compagni.

Dopo il ritorno nelle classi, scoprì che il mio cinese aveva retto sorprendentemente bene, anche in confronto ai miei compagni che erano appena tornati da Taiwan. Certo, loro pronunciavano le parole con quella dolce intonazione tipica dell’isola taiwanese, mentre io avevo sviluppato un accento pechinese che mi faceva sentire pronta per intavolare una trattativa con un funzionario del governo.

Insomma, in quell’ultimo anno, finalmente sentì di aver trovato un equilibrio tra tutto ciò che avevo imparato in passato e quello che stavo per affrontare. Lezioni, nuove esperienze, amicizie e opportunità. Anche la consapevolezza che mi sarei laureata in poco tempo mi faceva sentire una leggera pressione, ma allo stesso tempo una motivazione costante.

Parte 5: Pechino

Un giorno, aprendo la casella di posta, mi trovai davanti un’email che mai avrei immaginato. Il professor Song accettò volentieri di scrivermi una lettera di raccomandazione per il programma Yenching. Sì, esattamente quello: il prestigioso programma alla Peking University. Un programma in cui sono ammessi perlopiù studenti provenienti da posti come Oxford, Cambridge e Harvard. E io, con mia grande sorpresa, fui selezionata dalla mia università per partire. Ero l’unica italiana.

Davvero stavo finalmente per metterci piede in questo paese? Era come se tutte le porte, che fino a quel momento erano rimaste sigillate, si fossero improvvisamente spalancate. Ricordo perfettamente quando lessi quell’email: il cuore mi batteva forte e ripensai a quattro anni prima. La stessa ragazza che pensava di non farcela nemmeno a superare un esame di cinese, ora stava per entrare in uno dei programmi più prestigiosi del mondo in Cina. Non so se fu grazie alla mia ostinazione o alla nonna che continuava a pregare per me, ma ero lì. Di fronte a un’opportunità che sembrava surreale.

Naturalmente, questa notizia arrivò con una nuova serie di sfide, ma il bello della vita è che, una volta che superi una montagna, ti rendi conto che ce n’è un’altra da scalare. Tuttavia, questa volta non mi sentivo spaventata. Avevo già imparato come navigare tra l’inaspettato e l’imprevedibile, e soprattutto avevo scoperto una parte di me che sapeva affrontare tutto.

Mentre i preparativi per il programma Yenching prendevano forma, riflettevo su quanto fosse incredibile il percorso che mi aveva portato fino a quel punto. Dalla piccola Gualdo a Londra, passando per lezioni notturne, viaggi mentali a Pechino, e persino un’estate magica in Polonia, ogni esperienza mi aveva lasciato qualcosa di unico, preparandomi per quel momento.

E così, mentre mi preparavo ad affrontare l’avventura del programma Yenching, sapevo di essere pronta. Forse non sarei stata la più brillante del gruppo, forse non avevo l’eleganza di Oxford o il prestigio di Harvard, ma avevo una storia unica, costruita con sacrifici, dedizione, e un pizzico di follia.

Dopotutto, avevo imparato una cosa fondamentale nel mio percorso: non importa da dove parti, né quanti ostacoli incontri lungo la strada. L’importante è continuare a camminare, anche quando il mondo sembra crollarti addosso. E se ti capita di avere una nonna che prega per te dieci volte al giorno, tanto meglio.

Infine, se c’è una morale in questa storia — sempre che esista una morale — è che a volte avere il coraggio di uscire fuori dalla propria “zona di comfort” ne vale davvero la pena. Fosse anche per rendersi conto che, nonostante tutte le meraviglie che si incontrano lungo il cammino, il posto più bello e sicuro rimane sempre tra le braccia di chi ti ama incondizionatamente. Grazie, babbo Michi e mamma Mariam.

(fine settima puntata)

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