di Giovanni Storelli –
La campagna militare avviata da Napoleone nell’aprile 1796 e proseguita, anche senza di lui, fino al 1799, non soltanto disintegrò il sistema degli Stati italiani di Antico Regime, con l’instaurazione di repubbliche “giacobine” egemonizzate dai francesi, ma introdusse (o tentò di introdurre) significativi mutamenti nel campo delle leggi, della politica, della religione, della cultura, dell’economia, del costume e della mentalità.
Lo Stato Pontificio subì, fra 1796 e 1797, la mutilazione delle tre legazioni di Bologna, Ferrara e Romagna, che entrarono nella Repubblica Cispadana; l’anno dopo, anche le restanti province papali furono occupate dai francesi, che dettero vita alla Repubblica romana. Sul piano religioso, la discesa dell’armata napoleonica fu accompagnata dal tentativo di riformare (talvolta estirpare), con la collaborazione di democratici e rivoluzionari locali, il cattolicesimo tradizionale, e dal saccheggio di oggetti di culto, arredi sacri e opere d’arte appartenenti alle chiese.
In coincidenza con questi eventi, un fenomeno imponente interessò circa 60 località dello Stato (fra le quali Gubbio, Scheggia e Fabriano): ben 122 immagini della Madonna sembrarono animarsi, alzando e abbassando gli occhi di fronte ai fedeli, quasi ad assecondarne il ritmo della preghiera. Il fenomeno si manifestò per la prima volta il 25 giugno 1796 nel Duomo di San Ciriaco ad Ancona, mentre a Roma, che con 26 episodi sarebbe stata la città maggiormente coinvolta, il primo caso si verificò il 9 luglio seguente e riguardò la cosiddetta Madonna dell’Archetto, un dipinto su pietra maiolicata oggi inglobato in un piccolo oratorio in rione Trevi. Ma la cosa non finì lì.
Lo stesso giorno, infatti, padre Tommaso Gabrini dell’Ordine dei Ministri degli Infermi (i religiosi di san Camillo de’ Lellis, aventi come missione principale la cura dei malati), parroco della chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio a Fontana di Trevi, apprese dal popolo che accorreva e dalla pubblica voce che anche altre immagini mariane del medesimo quartiere, custodite sia nella chiesa parrocchiale sia in abitazioni private, avevano «prodigiosamente mossi i santissimi occhi». Egli verificò prima i fatti di persona, poi, con la sensibilità giuridica tipica degli ecclesiastici in tali situazioni, si mise a interpellare coloro che avevano assistito ai prodigi, redigendo una relazione ufficiale che in seguito trasmise alla Curia pontificia. Fra i 38 individui che, con testimonianza giurata, gli confermarono la veridicità degli eventi, vi erano: «Il Signor Filippo Maggior Filonardi – Gio[vanni] Piscini – Sua Eccellenza il Signor D. Carlo Odescalchi – Il Reverendo Signor D. Vincenzo Saroni – Il Signor Abbate Francesco Calai – Sig. Pietro Jovi – Il Reverendo Sig. Don Nicola Scofferi […] – Signor Marcello Cantoni» (cit. da Giovanni Marchetti, De’ prodigi avvenuti in molte sagre immagini specialmente di Maria Santissima secondo gli autentici Processi compilati in Roma… con breve ragguaglio di altri simili Prodigi comprovati nelle Curie Vescovili dello Stato Pontificio, Roma, dalle Stampe di Zempel presso Vincenzo Poggioli, 1797, pp. 270-271).
È opportuno soffermarsi su questa lista innanzitutto per evidenziare l’alta, quasi esclusiva, presenza di ecclesiastici, nobili e individui appartenenti al ceto medio (quelli preceduti dal titolo di “Sig.”), volta a garantire, in un frangente storico in cui la dimensione mistica e trascendente del cattolicesimo era messa duramente sotto accusa dal razionalismo illuminista e rivoluzionario, che i fatti descritti non originavano dalla fantasia di popolani incolti e facilmente suggestionabili.
In secondo luogo, va osservato che i personaggi principali di quest’elenco sono tutti riconducibili all’entourage di casa Odescalchi. Il personaggio centrale è Carlo Odescalchi (1785-1841), figlio allora undicenne di Baldassarre, principe di Bracciano e duca di Ceri, prestigioso membro dell’aristocrazia pontificia: Carlo, raggiunta la maggiore età, avrebbe abbracciato lo stato ecclesiastico, venendo creato da Pio VII, nel 1823, cardinale e arcivescovo di Ferrara. Avrebbe guidato l’arcidiocesi estense fino al 1826, per passare poi a ricoprire, nel 1828, la carica di prefetto della Congregazione dei Vescovi e Regolari e, nel 1834, quella di cardinale vicario del papa per la diocesi di Roma; nel 1838 avrebbe rinunciato al cardinalato e a ogni carica ecclesiastica per entrare fra i Gesuiti, morendo nel 1841 in odore di santità (è in corso il suo processo di beatificazione). Il sacerdote romano e filosofo don Vincenzo Saroni, pure fra i testimoni dei miracoli mariani del 9 luglio 1796, era invece uno dei precettori del giovane Carlo e di suo fratello Pietro, come leggiamo nella Storia della vita del padre Carlo Odescalchi della Compagnia di Gesù, pubblicata nel 1855 dal gesuita Antonio Angelini (p. 16). Saroni, quando nel 1798 i Francesi instaurarono a Roma la Repubblica, sarebbe emigrato a Firenze (mentre il suo pupillo, la cui famiglia era legata agli Asburgo, avrebbe raggiunto l’Ungheria). La terza figura degna di rilievo nell’elenco che stiamo esaminando è quella di Filippo Filonardi (1753- 1834): esponente di una nobile famiglia romana, militare di carriera, in quel momento rivestiva il grado di maggiore delle truppe pontificie; di lì a poco, tuttavia, avrebbe optato anch’egli per la vita sacerdotale, distinguendosi per la cultura e l’opera d’assistenza a favore di malati e detenuti, e diventando nel 1826 arcivescovo di Ferrara. Proprio questo dato, secondo me, riconduce anche Filonardi alla cerchia degli Odescalchi: è plausibile, infatti, che l’influente Carlo avesse caldeggiato presso papa Leone XII l’assegnazione della sua ex arcidiocesi ad un personaggio a lui vicino.
L’ultima tessera del mosaico è costituita dal gualdese Francesco Calai Marioni (31/07/1775-3/08/1853), del quale ho tracciato il profilo nel numero di ottobre di questa rivista. Come sappiamo, egli era allora segretario della famiglia Odescalchi, oltre che membro delle più importanti accademie letterarie di Roma. Non stupisce perciò ritrovarlo nel ristretto gruppo che accompagnava il figlio del principe di Bracciano. Merita casomai una precisazione il titolo di “abate” con cui lo troviamo indicato nella lista. Si tratta di una qualifica che nel Settecento non designava più solo il Superiore di un monastero o di una congregazione monastica, ma era attribuita, con valenza meramente onorifica, anche a semplici sacerdoti, a chi aveva ricevuto gli ordini minori, ai titolari di un beneficio ecclesiastico, e inoltre a intellettuali vari, ai precettori e segretari di famiglie nobili, a studenti di seminari, università e collegi religiosi, che spesso erano autorizzati a vestire l’abito ecclesiastico sebbene poi, non di rado, non accedessero al sacerdozio. Pur non disponendo di informazioni precise al riguardo, ritengo che Calai, per la sua biografia e per il fatto che anni dopo avrebbe contratto matrimonio e avuto una discendenza, ricada appunto in una di queste ultime categorie. Il documento che abbiamo esaminato offre, in ogni caso, ulteriore conferma del suo inserimento nella società aristocratica dell’epoca, la quale trovava la sua più compiuta (auto)rappresentazione non solo nei salotti, nei circoli culturali e nelle cerimonie civili, ma anche, e forse soprattutto, negli eventi religiosi.
La relazione di padre Gabrini confluì nella raccolta ufficiale, già citata in precedenza, approntata da un esponente di spicco della Curia romana, Giovanni Marchetti, a latere del processo canonico con cui la Santa Sede riconobbe ufficialmente il carattere miracoloso dei fatti del 1796. Tale raccolta fu subito tradotta per il mercato francese e inglese, ossia i territori da cui più violento era partito, nei decenni precedenti, l’attacco contro il cattolicesimo. Alcuni storici hanno osservato comunque che il clero, sebbene si adoperasse, come nel caso di Marchetti, nel propagare la notizia dei prodigi mediante gli scritti e la predicazione, evitò, almeno in una prima fase, di utilizzarli a fini politici, sottolineandone piuttosto il significato di compartecipazione della Vergine alle sofferenze del suo popolo nel tempo della paura e della persecuzione. Essi rappresentavano le «sante e pacifiche armi» invocate a suo tempo da Pio VI come unico rimedio contro la minaccia napoleonica. È indubbio tuttavia che i miracoli mariani del 1796, pur non avendo collegamenti diretti con le variegate insorgenze popolari antifrancesi del periodo, vadano inquadrati nel clima di resistenza e reazione alle ideologie rivoluzionarie, che si tradusse non solo nell’opposizione al razionalismo, all’ateismo, alle libertà moderne, ma anche nella riscoperta di devozioni controriformiste come il culto del Sacro Cuore di Gesù, la Via Crucis, l’Immacolata Concezione (non ancora definita come dogma), il Rosario e la pietà mariana in genere, che erano finite sotto accusa non solo da parte di illuministi e rivoluzionari, ma pure da giansenisti e cattolici riformatori alla Muratori. E che ora invece venivano rivendicate dai controrivoluzionari anche come simboli identitari politico-ideologici (il Sacro Cuore fu l’emblema dei Vandeani in Francia, mentre Viva Maria denominarono se stessi gli insorgenti che nel 1799 abbatterono, temporaneamente, i governi filofrancesi in Toscana e Umbria). Continuando poi a permeare di sé la spiritualità cattolica nell’età della Restaurazione e del romanticismo.
