di Maria Cristina Anderlini –
Sara, descrivici dettagliatamente il tuo ruolo all’interno dell’Unione Europea.
Io sono una “eurocrate” nel vero senso della parola, ovvero sono stata assunta in seno ad una delle Istituzioni dell’UE per garantire che la macchina amministrativa funzioni al meglio. In altre parole, io sono uno dei tanti ingranaggi, piccoli ma essenziali, che è chiamato ogni giorno a fare la sua parte all’interno di questo organismo enorme, complesso e affascinante.
Semplificando, si può dire che le Istituzioni europee fanno sostanzialmente due cose legate fra di loro a doppio filo: la prima è produrre leggi e regolamenti, mentre la seconda è erogare fondi.
Si capisce quindi come il funzionamento dell’Unione Europea presupponga una immensa produzione documentale. Ogni giorno vengono preparati centinaia di documenti «a firma UE», dalla Direttiva di amplissimo respiro fino alla più piccola nota di rimborso spese.
Ecco, assicurarsi che tutti i documenti siano prodotti e gestiti in maniera corretta e rispettando le procedure è proprio il compito di noi impiegati amministrativi.
Questo compito io l’ho svolto alla Commissione Europea per otto anni, e ora da circa due anni lo svolgo all’EEAS (European External Action Service), l’organismo che cura i rapporti fra Unione Europea e Paesi extraeuropei; una sorta di «Ministero degli esteri dell’UE.
Come ti è venuto in mente, all’inizio di lavorare per l’Unione Europea? E come sei riuscita ad entrarci?
Il 1992 fu l’anno del Trattato di Maastricht e dell’Europa unita, e fu anche l’anno in cui io presi la maturità al Liceo Casimiri di Gualdo.
Mi ricordo che all’epoca si sentiva fortissima l’energia che emanava da questo grande progetto che aveva oramai superato la fase di «sogno» e si stava trasformando in progetto vero, un invito concreto a costruire il nostro futuro insieme.
Io ero una ragazzina di un piccolo paese di provincia, ma quello slancio mi arrivò in maniera molto potente e mi dissi: voglio lavorare lì. Dopodiché, la realizzazione di questo sogno fu tutto un altro paio di maniche e necessitò di molto, molto più tempo. Dopo la laurea ho fatto molte esperienze lavorative diverse, sempre continuando a studiare per tentare le famigerate selezioni EPSO, i concorsi europei che escono periodicamente e sono estremamente selettivi. Dagli e dagli, finalmente nel 2012 sono riuscita a sostenere il mio primo colloquio a Bruxelles e dopo sei mesi sono stata assunta.
Ci ho messo vent’anni, ma ce l’ho fatta.
Quali sono i requisiti, secondo te, che devono possedere i giovani per poter aspirare ad un incarico del genere? Che consigli ti sentiresti di dar loro?
Di requisiti ne servono essenzialmente due: il primo è la conoscenza delle lingue. Attenzione però: non stiamo parlando di conoscere cinque, sei o sette lingue diverse e di padroneggiarle al pari di un madrelingua. Questo semmai viene richiesto a chi vuole lavorare nell’Unione Europea come interprete o traduttore. Tutti gli altri hanno bisogno di conoscere l’inglese, più un’altra lingua dell’UE (generalmente francese) oltre alla propria lingua madre.
L’inglese, però, non deve essere solo buono: deve essere ottimo. Per spiegarmi meglio, ripeto ciò che ho detto anche ai ragazzi del Casimiri: purtroppo nella scuola italiana la tendenza è ancora quella di far studiare a menadito i sonetti di Shakespeare o i romanzi di Dickens, al punto che spesso noi italiani risultiamo più colti degli inglesi stessi. Però, poi, di fronte ad una situazione di quotidianità dove è necessario farsi capire in inglese, i ragazzi italiani non sono in grado di esprimersi. Questo è un problema che ad esempio i ragazzi scandinavi non hanno, perché sono abituati ad ascoltare e ad esprimersi in inglese fin da piccoli. La buona notizia è che grazie a internet, alla musica e alle serie televisive che ora si possono guardare in lingua originale, gli studenti di oggi hanno molte più possibilità di imparare bene l’inglese di quante ne avevamo io e i miei coetanei all’epoca.
Il secondo requisito sembra banale ma non lo è: è la voglia di provarci. Troppo spesso vedo ragazzi che provengono da realtà di provincia e con immense capacità, che, però, sono inibiti e si tirano indietro già prima di cominciare. Anche solamente l’idea di tentare una cosa del genere sembra una impresa fuori dalla loro portata. Ebbene, non è assolutamente così. Quando i ragazzi mi chiedono se è il caso di considerare l’UE per il loro futuro, la mia risposta è sempre la stessa: l’unica differenza sostanziale fra loro e le persone che lavorano a Bruxelles è che questi ci hanno provato, e loro no.
Che cosa hai provato a tornare da ex studentessa al “Casimiri” come funzionaria dell’Unione Europea a parlare ad altri studenti della tua vecchia scuola dell’Unione Europea per la quale, oggi, tu lavori?
Questa è una domanda lunga e potrei davvero parlare per ore… Diciamo che ogni volta è una emozione forte, e che il risultato supera sempre le mie aspettative. Dico «ogni volta» perché questa per me è la terza volta che partecipo all’iniziativa Back to School e ogni volta la mia paura è stata quella di risultare troppo pesante per dei ragazzi di sedici-diciotto anni. Si sa, l’Unione Europea è un argomento un po’ ostico per tutti (adulti inclusi) e quello di non riuscire a calamitare l’attenzione nella maniera giusta o di non motivare a sufficienza i ragazzi è un timore fondato.
Eppure, ogni volta succede il miracolo: alla fine della lezione, tutti i ragazzi se ne vanno ma ci sono sempre quei due o tre che, timidamente e con garbo, ti si avvicinano e iniziano a farti spontaneamente delle domande. E lì, devo dire, inizia il bello: questi ragazzi diventano dei fiumi in piena, e quella che pochi minuti prima una lezione un po’ ingessata si trasforma in una chiacchierata a briglia sciolta (spesso lunghissima), dove ci si scambia opinioni, ci si chiede consigli, ci si espone dubbi. È successo anche nell’ultimo incontro, ed è proprio in quei momenti che mi accorgo che i ragazzi di oggi sono tutt’altro che apatici: al contrario, hanno un enorme interesse per il mondo che li circonda e il futuro che li attende, e verso certi argomenti hanno una curiosità genuina.
Ecco, basta che il seme germogli anche su uno solo di questi ragazzi, che io posso dire di aver fatto il mio dovere.
Che ricordi hai della tua esperienza scolastica a Gualdo?
Questo bisognerebbe chiederlo a quei poveri sventurati dei miei professori del Casimiri, che hanno dovuto sopportare per cinque anni una tipetta come me… Scherzi a parte, ero una studentessa modello come rendimento e come voti, ma col senno di poi mi rendo conto che deve essere stato tutt’altro che facile avere a che fare con una alunna come ero io, cosi pervasa di vena polemica e con una sete di conoscenza quasi esagerata.
Mi ricordo che non ne facevo passare una, qualche volta arrivavo addirittura a interrogare io i miei professori, perché esigevo riposte ai miei dubbi che loro, secondo me, avevano il dovere di fornirmi. Nella mia testa i professori avevano per statuto il dovere di sapere tutto, e di insegnarlo a me! Insomma, il loro stipendio glie l’ho fatto sudare tutto, non c’è che dire!
Quali sono le materie o gli argomenti di studio che più ti sono serviti per la tua carriera all’interno dell’Unione Europea?
Per lavorare nelle Istituzioni europee serve un po’ tutto, perché i profili richiesti sono tantissimi e abbracciano tutti i campi. Io sono laureata in Filosofia e sono stata assunta come amministrativa, ma poi servono esperti in chimica, biologia, ingegneria, economia, diritto…questo perché l’Europa si occupa di tutto, e una carriera all’interno dell’UE può davvero essere variegata e interessante.
Ad esempio, all’EEAS, dove lavoro adesso, sono quasi tutti militari o ex-militari, ed è molto stimolante per me cercare di integrarmi in un ambiente lavorativo così diverso da quello in cui ho operato per anni. Le competenze più importanti, però, sono senz’altro le cosiddette soft skills, quelle abilità di tipo relazionale che portano valore aggiunto. Parlo ad esempio della capacità di lavorare in gruppo, dell’empatia, dell’adattabilità in un ambiente multiculturale, della flessibilità… doti che sembrano scontate, ma non lo sono affatto.
La vita a Bruxelles e quella in un piccolo centro appenninico non sono assolutamente comparabili, però dicci: per che cosa è meglio vivere nella capitale belga e per che cosa la vita a Gualdo Tadino è ancora imbattibile?
Rispondo con una domanda: se vi dico «caraffa Brita », voi gualdesi sapete di cosa parlo, o dovete cercarlo su Google?
Nel caso dobbiate cercarlo su Google, vuol dire che a Gualdo c’è ancora l’acqua minerale che scorre dal rubinetto di casa. Già questo, secondo me, basterebbe a rendere la vita a Gualdo impagabile… Per tutto il resto, be’, c’è la varietà culturale di una città cosmopolita come Bruxelles, che davvero offre tanto, ed è il centro di tutto, anche dal punto di vista geografico.
Che cosa ti piace fare nel tempo libero che, credo, non sia molto?
Ho tante passioni, ma la più grande è sicuramente quella per i viaggi. Per me viaggiare e conoscere il mondo non è uno sfizio che mi concedo, è proprio una condizione essenziale della vita. Con il Covid ho subito, come tutti, uno stop forzato di quasi due anni. Ora spero che potrò ricominciare pian piano a viaggiare come prima. Io ne sono felicissima, il mio portafoglio temo che lo sia un po’ meno…
L’Italia, da paese fondatore della CECA, ha sempre avuto una forte vocazione europeista. Che cosa è cambiato, e perché, secondo, te negli ultimi dieci anni? Perché gli italiani sono più euroscettici?
Eh, questa è la domanda delle domande. Per rispondere esaustivamente bisognerebbe scrivere un trattato (e c’è chi l’ha fatto).
Da parte mia, posso provare a iper-semplificare : quando le cose vanno bene e si assiste ad un periodo di crescita all’interno di uno o più Paesi, è abbastanza facile vedere gli effetti positivi dello stare insieme; è quando il panorama internazionale si fa più incerto e sopraggiungono problemi inaspettati che la fiducia inizia a vacillare. Lo scenario diventa meno nitido, iniziano le preoccupazioni per il futuro e si inizia a pensare a qualcuno a cui imputare la colpa di questa incertezza.
L’Unione Europea sotto questo aspetto è il bersaglio perfetto, perché si tratta pur sempre di un organismo complesso il cui funzionamento è oggettivamente difficile da comprendere per il cittadino medio; al contempo, però, è una entità sufficientemente «lontana » da poter tranquillamente essere usata come scarica-responsabilità da parte di politici e amministratori. Da che mondo è mondo, avere qualcosa di nebuloso a cui affibbiare la colpa è il sogno sia di chi governa, sia di chi è governato.
Alla luce di quanto sta succedendo in Polonia ed Ungheria, ma anche dopo la tragica esperienza della pandemia, che cosa cambieresti dell’Unione Europea, se avessi voce in capitolo?
Mi permetto di allargare il campo della domanda: alla luce del recente conflitto in Ucraina, che è senz’altro l’avvenimento con l’impatto più importante di questi ultimi tempi (e anche quello destinato ad avere effetti più duraturi) ciò che cambierei è sicuramente la politica europea di difesa.
Oramai i tempi sono maturi per pensare seriamente ad un esercito comune europeo, che ci affranchi dalla NATO e al contempo permetta all’Europa di diventare finalmente un interlocutore di rilievo nella geopolitica internazionale.
Si tratta di un passo epocale, difficilissimo da compiere e che probabilmente necessiterà di uno sforzo di collaborazione come mai era stato chiesto agli Stati membri dell’UE fino ad ora.
Ma se c’è una cosa che gli eventi recenti ci hanno ampiamente dimostrato è proprio che non abbiamo più alternative, né tempo da perdere. Da recenti sondaggi pare che anche la maggioranza dei cittadini europei oggigiorno la pensi così, ed è paradossale, se ci pensate : tutti a parlare di euroscetticismo, ma poi quando si intravede una minaccia concreta sul nostro territorio, si chiede a gran voce la creazione di un esercito comune europeo. Per fortuna l’UE è da sempre abituata ad avere a che fare con le contraddizioni.
