di Giovanni Storelli
La Chiesa, si sa, vive nel mondo pur non essendo del mondo. E, nella sua storia bimillenaria, ha saputo trarre ispirazione dalle realtà temporali, accogliendone quegli elementi istituzionali e simbolici che sembravano funzionali alla sua struttura interna. Per cui, ad esempio, se il modello imperiale ha lasciato chiare tracce negli ordinamenti della Chiesa post-costantiniana, i processi di costruzione dello Stato moderno in chiave di disciplinamento, accentramento e, nella sua fase tardiva otto-novecentesca, codificazione hanno influenzato l’istituzione ecclesiastica, e in particolar modo il Papato, nei quattrocento anni successivi al Concilio di Trento.
Da questo punto di vista, il Vaticano II ha rappresentato un segno dell’attenzione della Chiesa verso le democrazie rappresentative che si andavano faticosamente edificando in alcuni importanti Paesi del mondo sulle macerie della Seconda guerra mondiale. Di tale nuova sensibilità, peraltro già in parte manifestatasi durante il conflitto, vi è esplicita testimonianza negli atti e nelle memorie di esponenti di primo piano dell’assise conciliare, come Giuseppe Dossetti o alcuni vescovi statunitensi.
Ora, il Sinodo generale dei Vescovi che si svolgerà in Vaticano dal 4 al 29 ottobre 2023 sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione, a conclusione di un Cammino Sinodale ” iniziato alcuni anni or sono su base nazionale e poi continentale, recepisce in modo evidente le richieste di democrazia dal basso, decentramento e partecipazione che emergono dalla società contemporanea, dentro e fuori la Chiesa. E recupera, inoltre, suggestioni collegiali tipiche dell’epoca pre-costantiniana, con indubbie ricadute favorevoli sui rapporti ecumenici con le altre confessioni cristiane, come gli anglicani e gli ortodossi (tra i quali, comunque, le tentazioni “papiste” sono da secoli in agguato, vedi l’asperrimo scontro fra Mosca e Costantinopoli, oggi incrudito dalla questione ucraina).
Vasta la gamma delle materie in agenda: oltre a quelle enunciate nel titolo, troviamo disuguaglianze economiche, guerra, cambiamento climatico, affettività e sessualità, disabilità, martirio e altro ancora. In ogni caso, il dato che mi sembra più rilevante è la critica alla modernità di cui il Cammino Sinodale si sta facendo carico. Una modernità che il Vaticano II aveva abbracciato forse con eccessiva fiducia nelle sue potenzialità positive, ma che ora, a sessant’anni di distanza, valutiamo con sguardo più disincantato, di fronte alle varie crisi economico-finanziarie, politiche, demografiche, ambientali e culturali che ne hanno segnato il cammino. Di fronte, anche, alla difficoltà sempre più palese di conciliare l’insegnamento e la presenza della Chiesa con la pluralità di etiche pubbliche e private, e di religiosità liquide, che caratterizzano il tempo attuale.
Tuttavia, l’ampiezza stessa dell’Instrumentum laboris, il documento preparatorio sul quale lavoreranno i padri sinodali, è indice della difficoltà di tenere insieme percorsi delle Chiese locali che negli ultimi anni si sono pericolosamente divaricati. L’impressione che resta alla vigilia del Sinodo è quella di Chiese nazionali che viaggiano a velocità differenziata non solo su temi sensibili quali la famiglia, la parità di genere, la sostenibilità ambientale, ma pure sul sacerdozio, il matrimonio e gli altri sacramenti, con fughe in avanti e ritirate strategiche; più ansiose di preservare una qualche forma di contatto con le proprie genti, anche a prezzo di sbiadire drammaticamente la differenza cristiana, che di aver cura dell’unità ecclesiale. Una polifonia che rischia di trasformarsi in una nuova torre di Babele.
Ciò che traspare è proprio l’affievolimento del senso dell’unità: comando evangelico sempre disatteso, e oggi, nel mondo delle tribune social, dei tuttologi d’accatto e delle post-verità, più che mai. Disatteso in primis da quei tradizionalisti che predicano l’ossequio incondizionato al magistero pontificio quando il papa sembra uno di loro, ma, se invece è Francesco, allora l’obbedienza non è più una virtù. Disatteso però un po’ da tutti, in realtà. Tanto per citare un caso macroscopico, il Cammino Sinodale ha visto riemergere, in Germania, Belgio, Austria, Svizzera, l’antico complesso anti-romano, di segno ultra-progressista, che fa intuire, nella coscienza di quei fedeli, chierici e laici, il disegno di una futura Chiesa cattolica ridotta a patchwork di Chiese nazionali indipendenti e sovrane, anche nella dottrina, a parte un sempre più labile riferimento alla comunione ecclesiale garantita (ma in che modo, se viene meno il 11 – agosto 2023
vincolo dell’unità di fede?) dal vescovo di Roma. Ognuno per sé e Dio per tutti (?).
Tali tendenze chiamano però anche in causa la qualità dei vertici ecclesiali. È possibile, da un lato, che la selezione dei vescovi, in questi anni, non sempre sia stata all’altezza del compito. E che, dall’altro, si sia verificato un certo scadimento del ceto cardinalizio, ovvero di quel gruppo di persone che, sebbene privato durante i secoli di un numero crescente di funzioni, ha pur sempre il compito di assistere il pontefice nel governo della Chiesa. Le nomine, in effetti, sono parse dettate, a volte, da motivazioni estemporanee e, per così dire, impressionistiche. Certo anche dall’urgenza ben determinata di dare voce alle periferie geopolitiche – e le periferie di oggi possono diventare il centro di domani –, ma con il fondato rischio di lasciare intanto ai margini i presuli di alcune delle metropoli dove passano i grandi flussi delle informazioni e delle decisioni nell’età contemporanea.
Il Cammino Sinodale, più che innescare dinamiche centrifughe, ha rappresentato probabilmente, da parte della Santa Sede, la presa d’atto della loro esistenza e la consapevolezza di quanto risultino ormai insufficienti gli strumenti autoritativi tradizionali per dominarle. Si è scelto di giocare la carta dell’ascolto, della kènosis, dell’inclusione per tentare di ricondurle a una sintesi condivisa. D’altronde, dopo la crisi del 2013, una riforma della Chiesa a vari livelli era nei voti di (quasi) tutti.
Lo strumento scelto, in questo caso, mi sembra tuttavia inadeguato. Il Sinodo generale non è un Concilio. Non è, come quest’ultimo, l’immagine e lo specchio della Chiesa universale congregata dallo Spirito Santo. Diverso è il numero dei partecipanti (molto più ristretto quello del Sinodo). Diversi anche i modi e i tempi (meno di quattro settimane, più una seconda sessione in programma nell’ottobre 2024, per il Sinodo, a fronte, potenzialmente, di qualche anno per il Concilio) dello stare insieme, del pregare, del conoscersi, del discutere, del discernere, del maturare. Soprattutto, le decisioni del Sinodo, ad oggi ancora puramente consultive, non possiedono né la forza né la cogenza di quelle, deliberative, di un Concilio.
Si dirà che se non altro, come dimostra il passato, il Sinodo è un tipo di assemblea più gestibile e orientabile dal pontefice e dai suoi delegati. Il che, data la gran varietà di input cui si troverà a dover rispondere, potrebbe costituire un vantaggio di ordine pratico. Ma ciò, oltre a contrastare singolarmente con lo spirito innovativo che si è inteso attribuire all’evento, non metterebbe comunque al riparo, per i limiti intrinseci dell’attuale forma-Sinodo, dal rischio di un risultato al ribasso, ossia di un documento finale che non riesca a uscire dalle secche del vago o dell’ovvio.
Queste, dunque, le premesse di un appuntamento forte (ancorché problematico) per la vita non solo dei credenti.
Il resto, come sempre, lo diranno i fatti.
